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FORMULA ITALIA

1986, Torino.

Ernesto, figlio di una famiglia benestante che possiede un’azienda fornitrice di componentistica per Fiat Auto (all’epoca si chiamava così), invita a cena Piergiorgio, un suo vecchio compagno di liceo.

Entrambi sono appassionatissimi di automobilismo sportivo con la differenza che il primo ha ampie disponibilità finanziarie per dare sfogo alle sue velleità velocistiche mentre, il secondo, diciamolo pure, non ha un becco di un quattrino e qualunque modo per far soldi e andar forte va bene.

Si conoscono bene e tra un calice di vino e l’idea di macchina da comperare per correre nei rally piemontesi, Ernesto se ne esce con un: “… a proposito non ti ho detto che ho cambiato moto?”.

I due scendono nel garage della villa di Ernesto sulla collina Torinese.

Ernesto accende la luce e Piergiorgio vede la moto, ma la sua attenzione è per qualcosa coperto da un telo bianco che lascia intravedere una ruota. Quel “qualcosa è basso e lungo”.

A Piergiorgio non interessano le moto né tantomeno quella di Ernesto. 

“Ma cosa c’è li sotto?” chiede.

“Ah si è li da 3 anni, l’ho comprata con la guarnizione della testa bruciata e non ho mai avuto tempo ne voglia di sistemarla. La vuoi? te la vendo”.

Posso vedere? chiede lo squattrinato.

Alzano il telo e appare una Formula Italia con il motore senza la testa cilindri che giace in una cesta in vimini, li accanto.

Piergiorgio è fresco del Corso Federale Pista della scuola di Vallelunga e sogna subito di possedere quella monoposto per mettere in pratica quello che ha imparato.

Ma le finanze non glielo permettono ma continua a guardare con interesse la bestia.

Si siede dentro, stringe il volante, prova ad inserire un paio di marce che ovviamente non entrano, preme sul pedale del freno che rimane giù (…) e sogna.

Nei giorni seguenti ne parla con altri 2 suoi amici altrettanto squattrinati di cui uno corre con una A112 Abarth nel campionato rally prima zona e l’altro deve ancora decidere cosa fare nella vita.

“Ragazzi! Ho un’opportunità da non perdere”

Gli altri 2 lo ascoltano incuriositi, visto che sono abituati alle stranezze di Piergiorgio.

Ce la facciamo prestare per un anno e gliela rendiamo funzionante!  

Inizia così un’avventura che dura circa un anno in cui questi 3 appassionati, totalmente ignoranti nel ripristino di una macchina da corsa, si cimentano una sera sì e una sera no, nel restauro di questa monoposto.

Uno di questo sono io e vi garantisco che la quantità di fesserie che abbiamo fatto, pur di metterci il culo sopra e girarci in circuito, è stata inenarrabile.

Abbiamo nell’ordine; rischiato di incendiarla per ben 2 volte, bloccato definitivamente la pompa dei freni, spanato una quantità esagerata di viti e dadi, goduto per il primo suono che fece (eccitando un relè), bevuto (tanto) durante le serate un ottimo prosecco, riparato con dei pastrugli orribili le parti in vetroresina.

Insomma, arrivò il grande giorno in cui la mettemmo in moto.

“Girava bene” la Signorina con un minimo stabile e un odore di scarico che ci piaceva tanto. 

Per la cronaca la Formula Italia era una monoposto a telaio tubolare con motore 1600 bialbero Fiat (125?) e cambio Lancia Fulvia. 4 freni a disco comandati da un impianto Girling e ruote da 13.

La prima uscita, Aprile 1986 sul campo volo dell’Aeritialia in corso Marche a Torino di fronte all’Abarth, credo. Non era un circuito ma una avio-superficie in cui mettere marce e far scaldare motore e freni.

Piergiorgio era il collaudatore ufficiale e Claudio l’ingegnere, il secondo del trio, cercava di capire qualcosa con un approccio un po’ più professionale sulle prestazioni della vettura.

Io che ero appena stato assunto in Fiat non riuscii ad essere presente quel giorno.

Seconda uscita: Varano. Quella volta c’ero. 

“Guai a te se esci e la rovini” mi dissero quando toccò a me guidarla.

Avevo un po’ di esperienze in kart e le misi a frutto.

Su lentamente la frizione, occhio al contagiri e poi seconda, terza, quarta con il piede destro che era “governato” dal contagiri.  

Primo giro pianissimo, secondo un po’ più allegro, terzo vediamo cosa sa fare.

Miseria come viaggia!! E li, un ricordo indelebile; ad alta velocità il casco era risucchiato verso l’alto dall’aerodinamica!! Una sensazione che non dimenticherò mai.

Dopo Varano andammo a Magione e nessuno la rovinò.

Venne poi il momento di separarcene. 

Chissà dove sei finita bella Signorina che ci hai tenuto a battesimo come una Nave Scuola?!